Novembre 2017

NON È ROBA MIA di Jean Tinder

“Chi sono?” È la domanda più fondamentale dell’esistenza e per eoni siamo stati occupati a trovare una risposta. Ogni risposta è una definizione, un limite, un’etichetta che attacchiamo o una scatola in cui ci infiliamo. “Chi sei? Come ti definisci? “Io sono una persona normale. Io sono una ribelle. Io sono potente. Io sono una vittima. Imi piace questo, odio quello.  Io sono un buon capo, un’impiegata riluttante. Io sono una terapista, un guidatore di camion, una persona gentile, un’introversa, una spericolata, una scrittrice, una donna, un uomo, una madre e una figlia. Io sono religiosa, politica, creativa, bloccata, speranzosa. Io sono furba, grassa indipendente, atletica, rilassata, timida, femminile, tosta, solitaria, stressata, goffa, bella, sto invecchiando, freddolosa, affamata…” fatevi un’idea.
Qualsiasi cosa segua “Io sono” è un’altra risposta alla domanda che risale alla notte dei tempi e dovunque guardate, le persone fanno di tutto per avere chiarezza su “Chi sono.”

Razzismo, sessismo, cattolicesimo, protestantesimo, ‘invecchiaresimo’ ed ogni altro termine che finisce con ‘-ismo’ è un modo per chiarire “Chi sono”, determinando – e quindi rifiutando – “Chi non sono.” (Forse la ragione per cui al momento nel mondo c’è tanta divisione è proprio perché le persone si sentono meno sicure nelle loro vecchie identità). È stata una grande avventura tuffarsi in tutte quelle definizioni di sé, verificare se ci stavano bene addosso e come le mettevamo in scena, ma ora il gioco sta diventando vecchio…almeno per alcuni di noi.

Ogni versione di ““Chi sono” comprende i suoi ruoli e le sue linee guida: non fumare, bere o dire parolacce; noi lo facciamo sempre, non lo facciamo mai; ci prendiamo cura della nostra tribù o “li” evitiamo o li compatiamo; noi conosciamo la via verso il paradiso, loro no. Noi siamo civilizzati, loro sono selvaggi e si continua così. Ripensate alla vostra vita e vite e considerate tutte le credenze che avete accettato. Quando siete nati in una certa fede, per impostazione predefinita è quella “giusta” ed è corredata dalle favole e dalle tradizioni che la sostengono.       

Quando sei nato in un sistema familiare i suoi credo, le sue abitudini, le sue visioni del mondo e preferenze ti sembrano giuste, almeno finché non inizi a farti delle domande su quella scatola in particolare. È la dualità di fondo: “Questo sono io; quello sei tu,” ma cosa accade quando decidiamo di andare oltre la dualità?          

Quasi nessun umano riesce ad immaginare di mollare il giusto e lo sbagliato, il buono e il cattivo, il maschile e il femminile perché senza quelle definizioni la vita è come minimo bizzarra e forse anche spaventosa. La prima cosa con cui ci identifichiamo è il genere (“È un maschietto!”), il che stabilisce tutto ciò che segue e infatti facciamo fatica ad immaginare di vivere senza quella definizione. Riuscite ad immaginare di applicare la stessa ambiguità a tutto? Persino noi Shaumbra abbiamo le nostre auto-definizioni, anche se sono piuttosto generiche.

 “Io sono una ribelle. Sono nuda e cruda forte, resistente e tosta. Odio le etichette. Io sono indipendente. Io sono una solitaria.” Chi siamo, se non quelle cose?
Di loro, le definizioni non sono sbagliate o non accurate eppure mollarle è una vera sfida.

Per me lo Shoud di ottobre ha riguardato proprio questo.  Nel corso degli anni ho mollato davvero tanto, eppure ecco Adamus che mi scuoteva per le spalle e mi diceva che ero ancora attaccata a qualcosa! A cosa? Cosa vedeva lui che io non vedevo? Nei giorni e nelle settimane successive le cose si sono fatte più chiare e si trattava principalmente di come io mi identifico ancora.

Per esempio, ecco una credenza che per me è diventata palesemente ovvia: “Ho bisogno di ricordare costantemente a mia figlia di fare i compiti. Se lei fa fatica o non riesce in qualcosa, significa che io non ho fatto il mio lavoro.  Se è infelice, io ho bisogno di aiutarla a sistemare la situazione. Se in una situazione di vita litiga con un amico. Ho bisogno di offrirle il consiglio più saggio che abbia mai ascoltato.”

Poi però ho capito (o forse mi ha dato un colpo sulla testa): Non sono io a gestire la sua vita! Come va a scuola, il sentiero della sua vita, le sue sfide e le sue scelte – non hanno nulla a che fare con me! È la sua vita e tutto ciò che io devo fare è fare un passo indietro ed osservare. Io posso fornirle cibo, abiti e una casa finché non sarà pronta a farlo da sola, ma tutto il resto ci rende entrambe infelici. Lei non è un’estensione o un riflesso di me. Il suo sé e la sua vita non sono mie (lo stesso vale per i miei figli, i miei genitori, fratelli e sorelle e tutti gli altri). Adamus ha continuato a ripeterlo: “Questa non è roba vostra,” e più la metto in pratica, più la vita diventa interessante.

Un paio di settimane fa la schiena ha iniziato a farmi male; forse ho spalato troppa neve, forse sono rimasta troppo seduta, ma mi eri ingobbita e zoppicavo in giro come se fossi invecchiata di 30 anni. Il solito interrogatorio – “Perché mi fa male? Cos’ho fatto? Cosa non va in me?” – di colpo si è fermato. “Forse non è roba mia!” e subito dopo, “Beh, allora a chi appartiene? Da Dove Viene? Posso rimandarlo indietro?” (Io amo la mente e tutte le sue domande…) e poi è arrivata la risposta: “Non importa di chi è,” ha detto il mio Sé. “Di nuovo, non è roba mia.” Mentre respiravo in quelle parole, di colpo qualcosa è cambiato. La dolorosa contrattura è diminuita, io mi sono raddrizzata e ho sentito che la schiena si rilassava e si apriva.

Per tutta la vita il mio corpo è rimasto attaccato al dolore contraendosi e volendo guarire, ma nel momento stesso in cui ho detto, “Questa roba non è mia!” si è rilassato e ha mollato. Io non ho insegnato al mio corpo a mollare perché quello sarebbe stato come combattere “ciò che c’è” e si sarebbe teso ancora di più. Io ho solo deciso che non era roba mia e ciò ha dato al mio corpo il permesso di mollare. Il dolore ha smesso immediatamente e nel giro di qualche minuto era sparito. Mi sono resa conto che se avessi tentato di “sistemare” il dolore, il mio corpo se lo sarebbe tenuto perché ci lavorassi sopra per tutto il tempo necessario in quanto da questo punto di vista mi sostiene…

Lo stesso vale per le mie altre “responsabilità.” Da quando ho detto a Taryn che non gestirò più la sua resa a scuola ho notato che i suoi voti sono più equilibrati, la gestione del suo tempo migliora e la sua autostima già alta è alle stelle. Io non le ho detto di assumersi la responsabilità delle sue cose, ma solo che io non sono più responsabile per loro. Com’è come non è, si è ripresa all’istante!

Quando ‘mollo’ tutto ciò che non è mio e mi permetto solo di esistere, le cose cambiano. Dove prima c’era la “guida”sbrigativasu ciò che “avrei dovuto” fare, ora c’è il sapere interiore. Dove prima c’era la congestione costante di avere troppe cose a cui stare dietro, ora zampilla un nuovo senso di facilità e di flusso. Dove una volta il dovere superava l’inspirazione, ora io – prendo in prestito una frase – seguo la mia beatitudine!

Potrebbe essere che tutto non è mio? Cosa cerchi di sistemare perché pensi che il problema sia tuo? Sei povero, malato, confuso e solo? Non è roba tua! TU, il tuo vero Sé non ha alcun problema, il che significa che tutti i problemi di cui fai esperienza non sono tuoi. Forse li hai presi dalla tua famiglia, dagli insegnanti, dagli amici, da vite passate, dalla coscienza di massa ma in ogni caso non sono tuoi! Puoi stare sicura che ti rimarranno incollati addosso finché continuerai a giocare con loro, a considerarli un ostacolo e a dire che sono “i tuoi problemi.”           

Quando cerco di guarire, di mettere in ordine o di liberarmi di qualcosa, comunque sono concentrata su “quella cosa”, ma ricordarmi che “quella cosa” non è mia sembra che la spari nella non-esistenza. L’energia cerca la soluzione quando glielo permetti. Nella tua vita quante cose si “risolvono” da sole quando smetti di affermare che sono tue? Problemi di salute? Problemi di abbondanza? Problemi di relazioni? Riesci ad essere talmente irresponsabile da lasciar andate tutta quella roba e smettere di cercare di fare la cosa giusta? È possibile che ogni disagio su tutto sia causato dal fatto che resto attaccata a qualcosa che non è mio?         

Noi abbiamo accettato tutte quelle definizioni e problemi per aiutarci a capire “Chi sono,” ma la cosa interessante è che sono tutte basate sulla dualità perché “Chi sono,” deve includere ““Chi non sono.” Se sono questo, allora non sono quello e di conseguenza non troverò mai e poi mai la risposta giusta alla domanda, perché risposta giusta deve portarsi dietro anche la risposta “sbagliata”!   

Ecco qui la genialata: Quando mollo ciò che non è mio – in pratica tutto – e mi libero da tutte le “risposte” con cui sto facendo esperienza, finalmente posso uscire dalla dualità ed entrare nel desiderio, cosa che potrebbe essere il cambiamento più importante di tutta la mia esistenza.